Il mistero della Muta di Raffaello

Volete una bella idea per un viaggetto pasquale o per un week end primaverile poco impegnativo ma molto, molto intrigante? Urbino, Montefeltro, Marche. Si lo ammetto sono leggermente di parte, ma vi assicuro ne vale la pena per diversi motivi ambientali, storico-artistici e anche eno-gastronomici il che non guasta mai. Inoltre in questi mesi all’interno del magnifico Palazzo ducale c’è una mostra particolarmente interessante sul famoso “Studiolo del duca” e da pochi giorni uno dei dipinti più celebri è tornato nella galleria dopo un anno passato nei laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Grazie al contributo di uno sponsor “La Muta”, opera sublime del grande Raffaello è stata accuratamente restaurata e l’intervento ha permesso di fugare gli ultimi dubbi sull’attribuzione ma nonostante ciò resta il mistero del personaggio.
Ma chi è davvero la Muta di Raffaello, questa enigmatica signora che deve alle labbra ermeticamente sigillate il suo soprannome? L’ipotesi numero uno è quella, si può dire, più lineare e vuole che la donna (dipinta da Raffaello presumibilmente verso il 1507) sia Giovanna da Montefeltro; la secondogenita di Federico e di Battista Sforza era nata nel 1463 o nel 1464, e aveva sposato Giovanni Della Rovere signore di Senigallia, Prefetto di Roma, valente e apprezzato condottiero, ma soprattutto nipote di papa Sisto IV e fratello del cardinale Giuliano, futuro papa Giulio II. La “Prefettessa” è una donna di grande carattere, coraggio e intelligenza politica, quasi una versione al femminile del padre il grande duca di Urbino. Colta ed energica, ma anche versata nell’arte del governo, regge lo Stato con pieni poteri e soprattutto con l’intelligenza e la lungimiranza paterna quando il marito è assente e poi, dopo la sua morte nel 1501, in nome del figlio Francesco Maria. Quando nel 1502 Cesare Borgia si appresta a mettere le mani su Senigallia (dove vendicherà nel sangue la congiura di Magione organizzando la celebre strage dei suoi oppositori) e su tutti i possedimenti dei Montefeltro, Giovanna fa spargere la voce che si dirigerà via mare verso Venezia, ma riesce a mettersi in salvo fuggendo, travestita da frate, verso la Toscana. A Firenze la ex signora di Senigallia viene accolta gonfaloniere di Giustizia Pier Soderini il quale, nonostante i tempi difficili, non esita a proteggere la sorella dello spodestato duca di Urbino. Donna “politica” Giovanna è, come tradizione familiare, anche una grande mecenate con una particolare propensione verso gli artisti della sua terra: a Giovanni Santi commissiona, nel 1490 per la festeggiare la nascita dell’atteso erede, una Annunciazione, ma è il figlio Raffaello che le deve di più. Nel 1504 la “Prefettessa” gli commissiona un San Michele, ma quello che è più importante lo “raccomanda” all’amico fiorentino Pier Soderini e al cognato, papa Giulio II. Ci sarebbero quindi ottime ragioni per ritenere il ritratto un omaggio dell’artista alla sua protettrice, ma qualche data non coincide del tutto perché il dipinto quadro raffigura una donna ancora giovane e Giovanna intorno al 1507 ha più di 40 anni, un’età avanzata per l’epoca. Inoltre la “Muta” ha uno sguardo innegabilmente triste e questo è un segnale importante. Di sicuro nell’ottobre del 1507, Raffaello fa ritorno a Urbino per riscuotere dal Duca un credito per le sue prestazioni artistiche a favore della famiglia Montefeltro-Della Rovere. Qualche anno prima il pittore ha fatto un ritratto alla triste Elisabetta Gonzaga, moglie del duca Guidubaldo, mettendole in fronte un gioiello a forma di scorpione e poi? Nessun altro della famiglia si è avvalso delle prestazioni di questo eccezionale artista? I personaggi che in quel periodo possono avere commissionato dei lavori al Sanzio sono solo due: Giovanna appunto e sua figlia Maria la quale, guarda caso, nel 1507 ha ventuno anni. Il fazzolettino che stringe nella mano destra, il corsetto verde scuro e la reticella di filo nero visibile, prima dei precedenti restauri, sui suoi capelli, provano che la donna è una vedova. E Maria Della Rovere è effettivamente vedova. Il marito, Venanzio Varano, sposato a soli tredici anni, è stato trucidato insieme al padre e ai fratelli, per ordine di Cesare Borgia, nella Rocca di Pergola. Rimasta sola, Maria viene accolta, insieme al suo bambino, nel Palazzo ducale dallo zio Guidubaldo, e trova anche modo di consolarsi. A Urbino infatti la giovane donna diventa l’amante di Giovanni Andrea Bravo da Verona, «gentile e formosissimo cavaliere», dal quale avrebbe persino avuto un figlio. La corte feltresca è colta e progressista, ma sulla condotta delle dame, specie se strettamente imparentate con il duca, non si transige, così un giorno, nella sala da scherma del palazzo il giovane cavaliere viene pugnalato a morte. Autori dell’omicidio che potremmo anche definire “delitto d’onore, sono un dispensiere di palazzo e Francesco Maria Della Rovere, fratello minore di Maria ed erede del ducato di Urbino. Il giovanotto, adottato nel 1504 dallo zio Guidubaldo, è un ragazzo impulsivo e sanguigno che, trovando disdicevole la relazione della sorella, si sente in dovere di ripulire l’onore della famiglia. Un «dispiacevol caso» così, in una lettera del 12 novembre 1507 lo definisce Baldassar Castiglione, un habitué del Palazzo ducale, il quale, successivamente, in una lettera del giorno 21, dà per chiuso l’ “incidente”. «La novità… passata cum qualche disturbo» evidentemente ha suscitato clamore e il comportamento di Francesco Maria non deve essere stato approvato dallo zio, ma ormai è tutto finito. «Le cose sono acquetate» sicché «el signor prefetto» di Roma (titolo che il giovanotto ha ereditato dal padre) è a Urbino, «senza altra memoria de fastidio alcuno». Vuol dire che si è deciso di soprassedere, di dimenticare e di far dimenticare. Il fatto che si stenda un velo di silenzio sull’assassinio dell’amante della sorella e del domestico, la stessa reticenza con cui Castiglione accenna all’episodio sono, quanto meno, indicativi di un certo qual imbarazzo. L’omicidio è stato organizzato a freddo, con un tranello e invece di pulire l’onore dei Della Rovere l’ha ulteriormente macchiato, tanto è vero che la storiografia locale, sempre benevola con lo splendido Francesco Maria, preferisce ignorarlo.
Immagine tratta dalla pagina Facebook Marche Tourism
Lo scandalo quindi viene messo a tacere e attorno a Maria (che si risposerà con Galeazzo Maria Riario Sforza, figlio della celebre Caterina Sforza e anche lui nipote dei papi Della Rovere) cala una specie di congiura del silenzio. Sul ritratto, forse terminato poco prima dell’assassinio, aleggia già un’atmosfera drammatica, la donna è evidentemente triste, forse sente la tensione o magari presagisce l’imminenza di una tragedia. Opportunamente “dimenticato” a Urbino il dipinto perde anche il suo nome e quando nel 1631 finisce a Firenze con l’eredità di Vittoria Della Rovere è già la “Muta”.
L’ignota signora resta a Firenze fino al primo ventennio del Novecento quando Benito Mussolini, capo del Governo da soli due anni e desideroso di farsi benvolere con azioni poco impegnative ma di grande impatto mediatico, accondiscende ad una richiesta degli urbinati che chiedono di avere in città almeno un’opera del grande Raffaello. Per volere del Duce la “Muta” lascia gli Uffizi per tornare a Urbino. A Firenze le faccenda non va giù, infatti l’opera, prestata per la mostra del 1940 sul Cinquecento Toscano, non viene restituita e il “sequestro” complice anche la guerra dura fino al 1947. A nulla serve la presa di posizione di un intellettuale come Pietro Calamandrei e cade nel vuoto anche l’appello del sindaco del capoluogo toscano Giorgio La Pira sull’ “opportunità e il diritto che le opere d’arte non vengano arbitrariamente tolte dal luogo in cui furono create”, anche perché in realtà la “Muta”, che non è chiaro dove sia stata dipinta, molto probabilmente rappresenta una delle figlie o la nipote del grande Federico da Montefeltro.
Le “tribolazioni” della “Muta” non sono finite perché nel 1975 sparisce misteriosamente dal Palazzo ducale insieme alla Flagellazione e alla Madonna di Senigallia di Piero della Francesca. I tre preziosi dipinti verranno ritrovati più di un anno dopo in Svizzera. Ma questa è un’altra storia…
come promesso due parole sui Della Rovere
Le fortune della famiglia iniziano con Francesco Della Rovere, papa Sisto IV (1414-1484) il cui fratello minore Raffaele è padre di Giuliano (papa Giulio II) e di Giovanni (1457-1501) marito di Giovanna da Montefeltro figlia di Federico duca di Urbino. Giovanna ha un fratello minore Guidubaldo che non avendo figli adotta il nipote Francesco Maria Della Rovere. Da questi e da Eleonora Gonzaga (figlia Francesco Gonzaga e Isabella d’Este) discendo i duchi di Urbino della famiglia Della Rovere che si estinguono nei maschi nel 1631. Il ducato di Urbino non è una proprietà personale della famiglia ma un vicariato in temporalibus della Chiesa che può passare solo ai maschi (si vabbè era arrivato ai Della Rovere attraverso la discendenza femminile ma guarda caso nel periodo in cui era papa Giulio II) quindi con la fine della dinastia le terre rientrano nello Stato pontificio. L’ultima dei Della Rovere è una donna, Vittoria che sposa Ferdinando II Granduca di Toscana e si porta in dote tutto il patrimonio personale dei duchi di Urbino, fra cui le opere d’arte, la biblioteca del duca Federico e persino le armature. Per questo oggi a Firenze ci sono dipinti che in origine ornavano il Palazzo ducale di Urbino come la Venere di Tiziano o il dittico dei duchi di Piero della Francesca.
Da una sorella di papa Sisto IV, Bianca, discendono invece i Riario fra cui Pietro, signore di Forlì per volere del prozio, che sposerà la celebre Caterina Sforza.